[Questo post è apparso per la prima volta sul sito www.punto-f.com/it/blog il 16/10/2017]
Oggi voglio raccontarti una storia, quella di un corso di lingua particolare e dei suoi studenti speciali. Facciamo un salto indietro nel tempo, al 2014. Mi trovavo all’open day di un centro di formazione per promuovere i miei corsi di inglese e tedesco e tra le (poche) persone che si sono presentate a chiedere informazioni, ecco che appaiono loro: una famiglia al completo, mamma, papà, e due figli, un maschio e una femmina. Avevano bisogno di un corso, personalizzato e intensivo, di francese e tedesco perché in poco più di sei mesi si sarebbero dovuti trasferire in Lussemburgo. Io sono stata invasa dal panico: quattro persone diverse, con tempi e modalità di apprendimento differenti, un bambino in età prescolare e una quasi ragazzina alla fine delle elementari. Da dove avrei dovuto iniziare?
Partiamo, in quinta
All’epoca ero ancora agli esordi dell’insegnamento e non avevo ben chiaro cosa mi sarebbe servito, come avrei dovuto impostare quel percorso. Ho iniziato sottoponendoli a un vero e proprio interrogatorio: vi serve la lingua di tutti i giorni o quella di un settore specifico? I bambini saranno inseriti allo stesso livello scolastico rispetto all’Italia? Di cosa vi occuperete una volta trasferiti?
Delineati i primi aspetti, ho iniziato a programmare le lezioni: incontri di due ore l’uno, due volte alla settimana; full immersion di tedesco, che risulta più difficile da imparare per un italiano e che richiede più tempo di esposizione per essere assimilato. I nostri incontri si svolgevano così: la prima mezz’ora era dedicata a Samuele, il bambino di 4 anni, e alla scoperta delle prime parole tedesche tramite giochi, filastrocche e cartoni animati – Peppa Wurst (Peppa Salsiccia), la versione tedesca di Peppa Pig, in primis. La restante ora e mezza la dedicavo ai grandi di casa, i genitori e la figlia maggiore: esercizi di grammatica, letture e dialoghi.
Più passava il tempo e più mi rendevo conto di quanto questo incarico richiedesse uno sforzo titanico, sia da parte mia che dei miei studenti. Mi sono trovata per la prima volta a dover gestire un gruppo così eterogeneo, con scopi, esigenze ed età diversissimi tra loro, e a dover adattare il mio metodo di insegnamento e i materiali che proponevo per riuscire ad agevolare tutti. I componenti della famiglia invece dovevano padroneggiare due lingue completamente nuove in pochissimo tempo e, almeno nel caso del tedesco, poco orecchiabili.
Soddisfazioni e difficoltà
Le soddisfazioni però non hanno tardato ad arrivare. Samuele, il più piccolino del gruppo, timido e introverso, già dalla seconda lezione iniziava a ricordarsi qualche parola e qualche semplice frase. Con un po’ di timore, ha rotto il ghiaccio formulando i suoi primi vocaboli in tedesco, con una pronuncia quasi impeccabile, e la cosa più bella è che lo faceva con il sorriso, divertendosi: quando entravo dalla porta e quando me ne andavo mi salutava con un dolcissimo sorriso stampato in volto e pronunciando il Guten Tag o il Tschüss più deliziosi della storia. Gaia, la leader della famiglia nonostante i suoi 10 anni, era bravissima: dopo la prima spiegazione, procedeva sicura, liscia come l’olio, tra i nuovi e duri suoni. La mia invidia per lei era enorme, uno scricciolo biondo dai grandi occhioni azzurri che imparava alla velocità della luce quello che io, a suo tempo, ho imparato in mesi e mesi di studio. Anche Moris, il papà, imparava abbastanza velocemente: avvantaggiato dalla conoscenza dell’inglese, che ha molte similitudini con il tedesco, avanzava senza grandi problemi.
Con Barbara, la mamma, si è instaurato subito un buonissimo rapporto, ma ho capito che lei sarebbe stata la mia sfida più grande: si impegnava tantissimo, le vedevo letteralmente il fumo uscire dalle orecchie, e io cercavo in tutti i modi di proporle spiegazioni impossibili con ragionamenti più vicini al suo modo di pensare, ma le difficoltà c’erano, e me lo dovevo un po’ aspettare. Barbara rappresentava l’emblema dello studente tipo di lingue: non aveva mai avuto l’esigenza di studiare una lingua straniera, il tedesco e il francese non erano i suoi passatempi preferiti ed essendo un’adulta, ha impiegato un po’ più di tempo rispetto ai figli per riuscire a vedere i primi risultati.
Adulti vs. Bambini
Succede proprio così quando si studia una lingua: i bambini sono come spugne, un po’ per predisposizione, e un po’ perché non conoscono ancora le regole della lingua italiana, formulano frasi nella loro lingua madre perché “le hanno sentite pronunciare così dal mondo che li circonda”. Allo stesso modo imparano una lingua nuova: ripetono quello che sentono, a volte inventando parole – che ridere che fanno! -, senza fare paragoni con il modo di esprimersi in italiano e soprattutto non hanno paura di sbagliare e si buttano.
Gli adulti invece sono frenati dal timore di fare brutta figura, di commettere errori, e quindi si congelano, letteralmente. Questo però li fa entrare in un circolo vizioso: se non esercitata, la lingua parlata sarà sempre più difficile da rendere fluida e sciolta, e le difficoltà saranno sempre maggiori. A rendere agli adulti la strada ancora più in salita, c’è anche il fattore del paragone con la propria lingua madre: la domanda classica che mi fanno gli studenti è “Come mai se in italiano questa espressione è composta da cinque parole in inglese ne ho solo tre? Dove finiscono le altre?” Questo è il vero, grande ostacolo che rende difficile imparare una lingua, soprattutto se ha strutture e costruzioni diverse dalla propria. Per questo bisogna pensare alle lingue non come una cosa unica, ma come tanti pianeti, ognuno completamente diverso dagli altri, con proprie regole, propri “movimenti”, proprie caratteristiche. E per imparare davvero una lingua straniera, bisogna partire dal dimenticarsi l’italiano.
Cambio di programma
A gennaio però ho dovuto rivoluzionare i miei programmi: dopo un colloquio con gli insegnanti delle scuole lussemburghesi che avrebbero frequentato Samuele e Gaia, ho dovuto modificare il piano di studio, abbandonare il tedesco e concentrarmi sul francese. Sia a Samuele che a Gaia sarebbe stato introdotto gradualmente il tedesco e sarebbero partiti dall’inizio invece con il francese e il lussemburghese. Ho lasciato a malincuore la mia lingua preferita che ci stava dando tante soddisfazioni – e qualche grattacapo – e ho iniziato con i verbi francesi, irregolari tanto quelli italiani, le regole piene di eccezioni, i suoni nasali.
Non solo clienti, non solo studenti
Le ore passavano, tra esercizi e dialoghi, rimproveri e congratulazioni, soddisfazione e sudore sulla fronte. E sembrava che avremmo avuto tutto il tempo che volevamo per perfezionare la pronuncia, imparare una regola nuova, vedere un’eccezione in più. Invece il giorno in cui sarebbero dovuti partire è arrivato e abbiamo dovuto salutarci.
Di solito quando finisce un corso un po’ sono felice, perché mi piace cambiare e mi piace vedere i miei studenti, grandi e piccini, spiccare il volo da soli. Ma quella volta è stato diverso: avevo trascorso gli ultimi mesi a stretto contatto con Barbara, Samuele, Gaia e Moris, e lasciarli andare non è stato facile. Non succede sempre e non succede con tutti, ma con loro siamo andati oltre al rapporto insegnante/studenti: si era instaurato un legame più profondo, complice, sentimentale. Queste persone non erano un nome tra tanti, non erano un volto tra gli altri, erano diventati famigliari, amici.
Li ho salutati, abbracciati, baciati e ho augurato loro ogni bene, sperando di aver fatto il mio dovere, di essere riuscita a dargli tutto il necessario, se non altro, per partire. Ho pensato – e penso tutt’ora – tanto a loro, alla loro vita, alle loro nuove abitudini, ai loro pensieri. E li aspetto trepidante ogni volta che tornano in Italia, per scrutare i loro nuovi volti, i loro nuovi gesti e scovare sotto sotto lo stesso sorriso di sempre, lo stesso grande cuore che mi ha accolto nelle loro vite – e che li ha fatti entrare nella mia.
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