[Questo post è apparso per la prima volta sul sito www.punto-f.com/it/blog il 11/1/2017]

L’anno scorso, non so ancora bene nemmeno io perché, ho accettato una docenza di inglese e una di tedesco in un liceo della provincia di Modena.

Forse perché non ero mai entrata in un’aula scolastica in veste di prof., forse perché mi annoio facilmente e avevo bisogno di una scossa lavorativa, forse perché tutte le cose nuove mi entusiasmano sempre un sacco e mi ci imbarco seguendo più la pancia che non la testa.

Fatto sta che mi sono trovata letteralmente in gabbia. Io che della libera professione anelavo più di tutto la libertà, il non dover rendere conto a (quasi) nessuno, la flessibilità degli orari di lavoro e la possibilità di andare in ferie quando tutti gli altri erano al lavoro, ho deciso mia sponte di firmare un contratto da dipendente che mi ha tenuto vincolata al mio incarico per nove lunghissimi mesi. E ho giurato di non farlo mai più.

Non fraintendetemi, insegnare mi piace un casino. Quando studiavo ripetevo che mai e poi mai avrei rivestito i panni di quei professori aridi e insensibili che avevo conosciuto lungo il mio percorso scolastico, ad insegnare non ci pensavo nemmeno. Poi è successo che quando ho iniziato a lavorare da libera professionista di traduzioni e di servizi di interpretariato neanche l’ombra, mentre mi fu proposto di entrare in aula e stare dietro alla cattedra. Da quelle prime esperienze ho scoperto che l’insegnamento è un’attività che mi piace fare perché non è mai monotona, almeno non come lo intendo e come lo pratico io, e che sono anche un po’ portata (questo non lo dico io, ma i miei studenti).

Da quando lavoro da freelance, insegnare lingue è un’attività parallela alla traduzione e all’interpretariato.  Lo faccio con passione, con divertimento e con impegno. Studio tanto e mi scervello per trovare il modo giusto di spiegare quella regola di grammatica che proprio fatica ad entrare in testa – anche nella mia, a suo tempo. Dopo ogni lezione mi porto a casa stanchezza, qualcosa di nuovo che mi hanno insegnato i miei studenti, tanta soddisfazione, qualche volta anche tanta frustrazione. Ma mi piace, e soprattutto mi piace farlo come dico io.

Insegnare in un liceo è una storia a parte. Qui tutto è già stato deciso perché tu sei solo una docente di terza fascia, per di più in ultima posizione. Qui non puoi assentarti o spostare una lezione perché ti hanno chiesto un interpretariato – proprio quello che aspettavi da tempo – o perché vuoi partecipare al WordCamp Torino. Qui se ti senti poco bene non basta telefonare, ma devi sottoporti a una sfilza di procedure burocratiche snervanti anche per una persona sana. Qui ti invitano a indicare la tua disponibilità per un incarico entro un giorno e un orario preciso e quando ti contattano per chiederti conferma, ti dicono di tenerti occupata sì, ma che contatteranno comunque chi è prima di te in graduatoria – nonostante non abbia dato disponibilità entro i termini stabiliti – perché “non si sa mai”. Qui ti chiedono la disponibilità ad insegnare nella loro scuola ma non vogliono darti l’orario che dovresti svolgere prima della firma del contratto. Qui devi portarti tu il tablet da casa – e se non ce l’hai devi usare il cellulare, sperando sia uno smartphone – per vedere il registro, che la scuola non ha fondi per prevederne uno per ogni insegnante. Qui non troverai (quasi) nessuno che ti aiuterà a capire come funziona questa macchina complessa e complicata che è la scuola pubblica: tu devi già sapere e saper fare. Qui fissano il calendario degli impegni pomeridiani dei docenti – scrutini, consigli di classe, collegi docenti e altre riunioni *utilissime* – a settembre per poi cambiarlo regolarmente proprio il giorno prima di quell’incontro. Qui c’è una sola stampante in aula insegnanti per più di 100 docenti.

Arrivati a questo punto, tutto vi aspettereste meno quello che sto per dirvi. E invece.

Mentre starete leggendo queste parole, io sarò in classe nuovamente, anche se questa volta per una supplenza breve in una scuola diversa da quella dell’anno scorso.

Mentre starete leggendo queste parole io avrò varcato quella soglia che undici anni fa -quasi dodici- ho superato in senso inverso. Avrò percorso nuovamente quei corridoi dove per anni ho passeggiato e chiacchierato durante l’intervallo. Sarò entrata in una delle classi che ho abitato per mesi e mi sarò seduta dietro alla cattedra, dalla parte della lavagna. Avrò firmato un contratto con quella scuola che mi ha tenuta in ostaggio da adolescente e che ora mi terrà prigioniera per un po’.

Perché qui è dove viene fuori la parte migliore di me. Qui mi diverto quando apro la porta, i ragazzi si alzano in piedi in segno di saluto e io devo fingere di fare la persona adulta e seria mentre vorrei solo scoppiare a ridere. Qui faccio finta di niente  quando i colleghi più anziani mi guardano e mi studiano in aula insegnanti, chiedendosi se sono davvero una docente anch’io o se sono un’alunna un po’ impudente che si è infiltrata tra loro. Qui è dove non insegno solo la grammatica del tedesco, ma cerco di infondere soprattutto la passione per questa lingua e per la sua cultura.

Qui è dove ho passato gli anni peggiori della mia vita e dove torno in quelli migliori.

E anche questa volta giuro che (forse) non lo farò mai più.

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